Nella Regini, in arte Ilka Scarneo era una donna bellissima, i teatri per lei quando saliva sul palco erano pieni, soprattutto di uomini, che faceva sognare, tra la sua leggiadria, avvolta da piume di struzzo, appariscenti gioielli e mantelle di seta o ermellino. Una mise appariscente che nascondeva un difetto: una voce non perfetta, che però cercava di nascondere dietro al suo aspetto appariscente e all’atteggiamento da figura eterea ed irraggiungibile. Tutti perdevano la testa per lei, anche il Duce e per questo Edda Mussolini non la poteva vedere, gelosa com’era del padre e nemmeno la Petacci.
Nella non aveva compiuti particolari studi per raggiungere il successo che ottenne, ma ebbe la fortuna di avere il destino dalla sua parte che le aveva fatto conoscere l’impresario Carlo Lombardo, nobile del centro Italia che si vergognava di fare teatro e che per questo si dilettava nel mondo teatrale sotto lo pseudonimo di Léon Bard. Assecondò le sue attitudini e passione, trasformandola in diva dei teatri italiani: con lei protagonista, Scugnizza, Il Paese dei Campanelli e Cincillà riuscivano a fare in ogni teatro d’Italia, il tutto esaurito anche alla trentacinquesima rappresentazione.
La leggerezza dell’operetta ben si addiceva al clima dell’epoca, quasi ad esorcizzare gli strascichi di dolore che la fine della Grande Guerra aveva portato con sé. Ma l’atmosfera stava cambiando nuovamente: nuovi gusti del pubblico e nuovi avvenimenti stavano travolgendo l’Italia e Nella se ne accorse per tempo.
All’apice della carriera, nel 1929, scomparve dalle scene attuando il fiero proposito di mettersi da parte, di non essere più protagonista di un paese troppo diverso da quello che l’aveva vista nascere e che non le appartava più.
Decise di uscire di scena e scelse di dedicarsi ad un solo uomo: l’uomo che stimava e di cui si era innamorata. Il suo pubblico rimase sulle prime sbigottito ma poi velocemente, come spesso succede, la dimenticò. Non vi fu più traccia di lei né sui palchi dei teatri né sulle pagine dei giornali e neppure nei pensieri della gente. Solo nel 1963, in occasione della sua morte, qualche giornale le dedicò un articolo, intriso di nostalgia per un tempo di lustrini e piume di struzzo che lei rappresentò benissimo, prima che scendesse il nero rigore sull’Italia. Poi di nuovo il silenzio.
Lasciò tutto il suo patrimonio alla Casa Verdi di Milano, ricovero per musicisti, segno inequivocabile del suo attaccamento alla musica e al teatro e disponendo, nel suo testamento, che le si facesse una tomba al Monumentale per accogliere lei e il suo amato marito.
Per i due coniugi viene riproposta l’iconografia del defunto adagiato sul letto di morte, tema già affrontato da Giannino Castiglioni per la sepoltura dei coniugi Rossi. La vanità della diva riposa da allora dentro ad un corpo di donna in bronzo, semplice nella sua raffigurazione, dai capelli raccolti in una coda di cavallo e che, sdraiata, tiene per mano il suo uomo in un eterno sonno al suo fianco. Ed è un peccato svegliarli.
Dal mio libro “La città immobile”, De Ferrari Editore, 2019 (ma ne parlerò anche nel mio prossimo libro in uscita in primavera)
Se volete saperne di più vi aspetto nel tour “Finchè morte non ci separi“, un tour inedito in occasione di San Valentino, fissato quest’anno alle 11.00 e alle 15.00